giovedì 6 ottobre 2011

Scan it, baby!

A parte che sto ancora bestemmiando perché mi si è impallato il computer facendomi così perdere metà del lavoro fatto nell'ultima mezz'ora. Che quando il computer si impalla bisogna incazzarsi, soprattutto quando voi non stavate facendo niente di male e all'improvviso compare quella schermata blu con la simpatica scritta "premere un tasto per continuare", e voi premete un tasto, ne premete anche due, spaccate anche la tastiera a forza di premere tasti ma lui si degna di restituirvi il vostro sudato lavoro non ancora salvato? Certo che no, cosa credere. Premete un tasto per continuare a bestemmiare.
A parte questo dicevo.

Allora oggi ho preso la mia borsa, l'ho svuotata di tutto il ciarpame (credo di non aver mai usato prima questa parola in vita mia) che c'era dentro e l'ho appoggiato sullo scanner, eh sì. Poi ci ho appoggiato pure la mia faccia e -TADAN!- ho acquisito l'immagine.
Perché ho fatto ciò? Prima che facciate una telefonata e io venga portata via da un team di psichiatri con tanto di camicia di forza, forse è meglio che specifichi che si tratta di un progetto fotografico, credo il più strambo a cui abbia mai preso parte (anche se pure questi non scherzano..).
Il progetto si chiama Face Your Pockets, e consiste appunto nell'utilizzare uno scanner per mostrare al mondo intero le meraviglie contenute nella vostra borsa e nelle vostre tasche, quelle cose che vengono in giro con voi ogni giorno e (almeno nel mio caso) vi dimenticate di avere finché non svuotate la borsa per pulirla, quindi mai. Mi piace l'idea che si possa capire qualcosa di una persona guardando quello che si porta in tasca, ed è per questo che ho deciso di prendere parte al progetto. Oltre al fatto, ovviamente, che scannerizzarsi la faccia è stupido e quindi divertente, e quindi why not?
Quindi (e 3), qua c'è il mio contributo a rendere internet un luogo straripante di follia, se volete dare un'occhiata a tutti gli altri sfigati che non hanno niente di meglio da fare nella vita che farsi sparaflesciare da uno scanner, questo è il sito ufficiale del progetto: Face your pockets.
Fatemi sapere che cosa ne pensate...

DAY 279 - face your pockets! by Stila_Rebel

lunedì 26 settembre 2011

A solid line that never ends.

2008
Non so
se bere coca cola alle 5 di mattina sia sano, non so per quanto ancora resterò sveglia ad ascoltare le voci che mi tormentano.
Non so più dov'è finito il mio scopo, si è perso nella vastità di questo posto.
Non so perché penso a certe cose, ma ci penso e mi fa male, e la rabbia cresce, prepotente.
Le mie radici non sono salde. Imprigionata nel mio stesso sogno, davvero, non so più che cosa fare. Non mi resta altro se non questi novi pezzi di me.


2009
Ho fatto delle foto che devi assolutamente vedere. No, non come le solite. Quelle non te le meriti, cosa credi.
Mi ricordo tante cose quando penso a te. Hai sempre lasciato che tutto accadesse per caso, non facevi mai niente per cambiare gli eventi. Un po' ti ho odiato per questo, sai. Anche se alla fine che potevi fare? Ero pur sempre io quella che aveva il ragazzo.
Mi ricordo parole e accenti diversi e sorrisi.  Il senso di trionfo per aver rotto le barriere del tempo e dello spazio.
Non credere che ti cercherò all'infinito. A me hanno sempre insegnato che le cose si fanno in due.
E cerca di capire un po' anche tu, quello che mi fa rabbia.
Mi fa rabbia il fatto che non riesco ad esprimermi con te, non riesco ad essere me stessa. Uno schermo non lo puoi guardare negli occhi quando devi dire qualcosa di importante. Io ho bisogno che tu veda il mio sguardo, voglio vedere il tuo. Odio dover invidiare gli altri, quelli che senza sforzo riescono a farsi capire da te. Voglio urlare e sentire il tuo cuore che batte più forte, voglio vedere l'effetto che ha su di te. Mi fai rabbia perché non ci arrivi, a volte. Non può essere sempre tutto un caso, l'hai detto anche tu.



2010
Che perdita di tempo dormire.
Rido. Anche questa volta mi hai tenuta qui. Non è stato difficile avere la meglio sulle mie decisioni.
Ti bramo come si brama una droga. E forse non è neanche tanto sbagliato come paragone.
Stai distogliendo la mia mente da tutto il resto, dai problemi. Sembri fatto apposta per distruggere le mie difese.


2011
Nessun segnale. Non rispondi più. Fai finta di non capire o fai apposta, oppure stai davvero bene? Sei davvero così egoista? O forse non hai capito.
Stai esplodendo nella mia testa mi fai male, sei dovunque nel mio cuore
divorando tutto
il dolore di essere ignorata
non rispondi
sei nelle mie mani che tremano, negli spasmi rabbiosi
sei il respiro che non riesco a calmare.
Sei la distanza, quella che distrugge tutto oppure cambia crudelmente le cose, sei nei pensieri che devo fermare, sei la mia lotta interiore.
Sei parte e rovina del mondo che avevo trovato, il mondo che volevo per me.


Ti tenevo come tenevo la mia chitarra, le mie dita giocavano con te. Un privilegio che non riservo a molti.
Alla fine di tutto avrai solo quello che hai chiesto. Traditore.


Good morning heartache
you're like an old friend
come and see me again.

martedì 20 settembre 2011

Endlich unterwegs

Prima di lei c'era il nulla.
Alberi e campagna scorrevano insignificanti e sfioravano il nostro treno che inseguiva il suo verspätung, senza mai raggiungerlo. 11 ore sulle spalle assieme ai nostri zaini da backpacker fighi.

Ma piacere di conoscerti, Berlino! Era un po' che ci tenevo a vederti, sai?

E dopo...dopo c'era una stazione enorme. E una Berliner fresca ad aspettarci per brindare all'inizio di un nuovo viaggio.
Willkommen.


DAY 219

sabato 6 agosto 2011

Journey to the end...

Dunque...cinque magliette, due pantaloncini, un paio di jeans, due paia di calze, una gonna, svariati calzini/mutande/reggiseni, beauty case con lo shampoo che non ho ancora capito se devo portare io, gorillapod, fotocamere, ombrello, soldi, phon, lettore mp3, libro, asciugamani, sacco a pelo....tutto sopra al mio letto.
Preparativi. Alla fine del lavoro ho un letto di nuovo libero e le mie prossime due settimane di vita impacchettate per bene dentro uno zaino; in altre parole: Interrail.
Poche le cose pianificate, so solo che se la signora Ada del call center di Deutsche Bahn non mi ha presa in giro fra qualche ora mi troverò su un treno diretto a Berlino, e penso, utile il fatto che fra me e la mia ultima lezione di tedesco ci siano cinque anni di studio assiduo del giapponese. Sono quelle cose che ti fanno venire voglia di...non so...creare un gruppo su Facebook.
Ho la gola secca, le aspettative alte e le palle piene di stare qui; c'è gente che mi aspetta lungo la strada, e gente che non sa che mi incontrerà. Io cerco di non pensare troppo a dove mi trovavo un'anno fa a quest'ora e vado. Ittekimasu.

E allora let's go! Datemi tanti language mindfuck e tante cose da fotografare, datemi persone nuove. E no signora, non glie lo pago il biglietto del treno, vede, qui c'è scritto che posso andare dove cazzo mi pare. Global pass, you see?
Quando torno aspettatevi dei bei post, e forse che riusciamo a dare un po' di vita a questo blog...
Ma mi raccomando, non aspettatemi alzati.

giovedì 28 luglio 2011

Sfidando la città che non dorme mai.

Welcome back, caldo. E con te i piedi nudi, i pantaloncini corti e le bibite ghiacciate, i turisti che non sanno guidare e il rombo assordante delle moto da strada. Il sole anche dopo le cinque e mezza di sera, e la luce giallastra della mia camera dove mi rinchiudo a studiare giapponese.

Non c'è un giorno preciso per l'inizio di quest'estate. E' arrivata danzando assieme al freddo, e ogni tanto gli cede ancora il posto in un soffio di vento troppo forte, in una mattinata nuvolosa o in una tempesta improvvisa. Sempre e rigorosamente quando io decido di stendere il bucato.
L'inverno è perfetto per pensare, l'estate è il periodo per fare casini, e questo lo sappiamo. Ma chissà cosa succederà nell'anno del Boh...
Un anno fa era arrivata l'ora, quasi. Un anno fa era un giorno di cui non mi importava niente, volevo solo che passasse in fretta assieme agli altri tre che mi separavano da Lei. Era un mercoledì di luglio in cui io non avevo idea della grandezza di quello che stava per succedere, del casino che avevo fatto e di come tutto sarebbe cambiato. La mia vita prima e dopo Tokyo.



Hey ti ricordi di me? Sono quella che girava scalza per le tue strade, quella che attirava sguardi curiosi nelle roventi mattine d'agosto.
Sono quella che voleva sempre rimanere sveglia dopo che tutti erano andati a dormire, quella che cercava di rimanere al passo con te. Sono quella che a volte non tornava a casa, quella che dopo un paio di giorni girava senza trucco e con addosso delle magliette prese in prestito da gente a caso. Quella che profumava di docciaschiuma al limone trovato nella doccia di una guest house, che aveva sempre due occhiaie enormi che non faceva niente per nascondere, quella che non si fermava mai.
Io sono quella che si infilava nei tuoi vicoli più nascosti, che voleva scoprirti. Sono quella che hai salvato e che ha un conto in sospeso con te, sono quella che presto tornerà.

lunedì 18 luglio 2011

Waking up on the other side

Un giorno ti è accaduto che ti sei svegliata, e non avevi la minima idea di dov'eri.
Era notte fonda quando sei arrivata, quindi non ti ricordavi niente della casa, di come fosse fatta, quanto fosse grande e nemmeno a che piano fossi. E' una sensazione strana, stare sdraiati su un letto in una camera a chiedersi cosa ci sarà fuori.
La camera aveva delle finestre grandi che davano su un terrazzo da cui si vedevano altre case poco distanti e una piscina in giardino; la luce era fortissima, chissà che ora sarà stata.
Sei rimasta lì per un po', c'erano dei fievoli rumori che venivano da oltre la porta, a volte delle voci femminili. Ti sei alzata dal letto.
Il pavimento era di legno, tu scalza in pantaloncini e maglietta, non ci potevi credere. Ti ci erano volute tutte le ultime 24 ore per arrivare fin lì, quello te lo ricordavi bene. Hai aperto la porta.
Sei rimasta lì per un po', nel corridoio, senza sapere bene cosa fare. Da lì potevi vedere una enorme scala a chiocciola circondata da mura di vetro, proprio al centro di -boh- il soggiorno? Eri al primo piano. Fra te e le voci dietro l'angolo c'era solo una porta trasparente.
Ad ogni passo ti rendevi conto sempre di più di quanto la casa fosse grande. Il cuore ti batteva forte mentre camminavi verso quella che doveva essere la cucina. Avevi riconosciuto le voci, loro si erano girati.
Il momento successivo qualcuno ha pronunciato il tuo nome con quell'accento che ti piace tanto, e tu ti sei ritrovata stretta in un abbraccio con la faccia premuta contro il petto di una persona altissima. Sei rimasta lì per un po', e poi hai cominciato a guardarti intorno.
Quel giorno che ti sei svegliata, ed eri in Australia.


domenica 3 luglio 2011

Vicky rules the world

Vicky rules the world by Stila_Rebel
Vicky rules the world, a photo by Stila_Rebel on Flickr.
Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle.

domenica 5 giugno 2011

Ma vie est un tatouage.

Ci sono quei momenti in cui, senza una ragione precisa, tutte le tue emozioni riaffiorano nello stesso momento e hey, sono veramente tante.
Senti addosso il peso di tutta la tua vita, facce e sorrisi e sguardi si sovrappongono freneticamente e tu li ricordi tutti, quelli che ci sono stati e hey, sono veramente tanti.
Ogni cosa lascia un segno, bello o brutto che sia, e a te in quei momenti sembra di sentirli tutti su di te, anno dopo anno di storie raccontate sulla tua pelle. Tra rughe, cicatrici e tatuaggi non c'è nessuna differenza.
Ora allo specchio puoi vedere tutte le espressioni che hanno modellato il tuo viso e ti chiedi perché esistono persone talmente stupide da farsi una plastica facciale. Per ritrovarsi a ottant'anni con della roba chimica sotto una pelle liscia che nasconde qualsiasi testimonianza della loro giovinezza?
Pensi a tutte le volte che ti hanno ferito e hey, sono veramente tante. Ma sai che quelle lame le porterai sempre con te come prova del fatto che non sei ancora sconfitto. Ormai hai imparato che ci sarà sempre qualcuno che entra ed esce dalla tua vita senza controllo, lasciando molti più danni di quelli che c'erano prima. A volte fra te e una porta girevole non c'è nessuna differenza.
Pensi a come la tua vita ha cambiato suoni, accenti, parole, lingue. Un vortice di mondi passati davanti ai tuoi occhi, e non li conti più tutti i modi in cui è stato pronunciato il tuo nome. Tutti i luoghi della tua anima sono sempre lì, e tu hai scambiato un pezzetto di cuore con ognuno di loro. Pensi a quante volte la tua vita ha cambiato fuso orario. A volte tra il giorno e la notte fai fatica a capire la differenza.

A volte pensi a tutti i motivi che hai per essere felice e, Hey, sono veramente tanti.

giovedì 5 maggio 2011

Flashback

Che bello, stamattina non avevo nemmeno tanto sonno. Staccare skype aiuta ogni tanto.
Sono uscita per fare colazione, ho sparecchiato, mi sono preparata e sono uscita.
Dopo aver avviato la lavatrice mi sono incamminata verso l'ufficio, salutando l'autista del corriere che viene a caricare merce ogni mattina: l'unica persona al mondo ad avere il permesso di chiamarmi fantolina.
...e cel'avresti anche tu se mi avessi procurato un biglietto per il concerto dei Rancid quando avevo 15 anni.
In ufficio solita routine, finisco un po' di lavori, mi brucio ancora un po' la retina fissando lo schermo del computer, faccio pausa cappuccino e assaggio un cioccolatino moldavo al gusto di cactus.
Cactus?
E a questo punto nei film americani la voce fuori campo dice qualcosa come "sembrava una giornata normale come tutte le altre, e invece, proprio in quel momento, qualcosa di inaspettato successe."

E cazzo se successe.
No, non è venuto nessun godzilla a mangiarsi il tetto della fabbrica, anche se quasi quasi preferirei lui alle orde di maggiolini che stanno infestando il cielo di maggio...quello che successe è un flashback. E' bastata una frase letta, una piccola innocua semplice frase e si è scatenata una reazione a catena pazzesca.
"...andava in terrazza a raccogliere le sigarette lasciate dagli studenti durante gli intervalli..."
boom.
La terrazza. La Terrazza. La porta scorrevole scavalcare i condizionatori e sei fuori. Il caldo insopportabile.
Boom.
A destra, in fondo. Sorpassa i polacchi le francesi i tedeschi, nell'angolo. Accendi la sigaretta, ridi.
BOOM.
La ringhiera blu. Scotta. Siediti sul pavimento dietro ci sono i tubi che sputano aria calda. Davanti c'è Shinjuku.

Come sensazione la paragonerei a quando stai camminando, anzi correndo, e c'è un ramo basso, anzi no, un palo di ferro. Troppo basso. Ma tu non lo vedi e ci sbatti violentemente la testa contro e stramazzi a terra. Quella sensazione di dolore misto a sorpresa, e più svanisce la sorpresa più si intensifica il dolore. Uh-uh, direi che calza come paragone.
Solo che il genio non si ferma qui, no, prima che il cervello riesca a dirle di smettere subito lei pensa bene di andare a rileggersi i racconti di Tokyo che aveva scritto. Peggiorando notevolmente le cose. Ed è curioso come i flashback vengano per delle cose all'apparenza normali, come ripensare alla mia musichetta della metro preferita per esempio. Takadanobaba. Turururuuuuuu...e a forza di flashback, alla fine sono andata a fare la spesa con una faccia sconvolta che devo aver terrorizzato almeno un paio di vecchiette. La prima persona che icontro al supermercato che mi rivolge la parola, prima cosa che fa mi chiede: "allora con il Giappone??" Scena muta, faccia ancora più sconvolta, tanto che alla cassa ho rischiato di falcidiare (che contenta che sono quando riesco ad usare questa parola) con l'enorme carrello della Dico una povera signora che stava pagando, e che mi ha pure chiesto scusa.
Ormai è fatta, sono in trappola, tanto che tornata a casa dal pranzo concludo lo shock in bellezza riguardandomi il quaderno che avevo in Giappone. Perché, oltre a portarmi sempre dietro un quadernetto per scrivere testi di canzoni, pensieri, menate, ho anche preso l'abitudine di annotarmi tutte le frasi particolari/filosofiche/divertenti che sento in giro. Quindi questo quaderno è pieno delle cazzate che sparavo a Tokyo con i miei amici e compagni di scuola, e rileggendole, a parte la testata al palo di ferro di cui sopra, mi è tornato in mente di quando sono tornata, di come rileggendo quelle frasi otto mesi fa in Italia mi fossi accorta che non potevo condividerle con nessuno in quel momento, perché nessuno le avrebbe capite. Di come mi bloccavo a metà delle frasi quando cercavo di raccontare del mio viaggio ai miei amici italiani, rendendomi conto che lì la frase "first we yobu the staff then we tanomu the check" non faceva ridere. Non aveva neppure senso.

Avrei dovuto capirlo dal cioccolatino al cactus che questa non era una giornata normale.



lunedì 2 maggio 2011

林檎の時間

(guardandosi allo specchio)
Ciao tu chi sei che cazzo vuoi
davanti a te davanti a noi 
tenendo il passo giusto 
sai che voli e assaggi il gusto 
del tempo delle mele

Vorrei sapere chi è stato ad anestetizzarmi questa volta. Chi è che mi ha rubato i sensi? Giuro, non sentivo nessun odore. Il contatto della pelle non era né freddo né caldo, niente reazioni, niente liquidi. Come si fa a vivere una vita così asettica?

C'hai detto che non pensi mai 
uscendo dove cazzo vai 
qualcuno c'ha pensato 
e adesso so che sono nato 
nel tempo delle mele...

Il giro è sempre quello, tempi duri, tempi cupi, il tempo delle mele. Prima ti sbatti, poi ti perdi, e infine torni e raccogli i frutti, buoni o marci che siano. Oddio, credo di essermi appena rotta un pezzo di dente masticando una gomma, ho sentito un rumore orribile.

Na. na na na na na na naaa, na na na na na na naa..
Niente di nuovo niente di bello 
niente mi toglie da questa tomba 
hey ciao chiamami faccia di gomma 
hey ciao fin che nessuno mi smonta 

Ho sonno, un sonno avvolgente, allettante e pericoloso, e lui sta per vincere. Vorrei qualcosa che mi faccia schifo. Vorrei bere del caffè e incazzarmi, oppure bere redbull e ridere, oppure bere coca cola e deprimermi. Voglio un po' di silenzio, ma di quello vero, non quell'irritante sottofondo di lampada al neon e ventola di computer. Quello che lascia l'aria leggera intorno a te, che ti dà libertà di movimento.
Avete mai sentito il rumore delle bolle quando scoppiano? E' bellissimo, plick. La più dolce delle esplosioni.
Vorrei il sole, una maglietta a maniche corte, e un braccio attorno alle spalle, una presenza che non mi dia fastidio. Vorrei una birra di quelle come si deve, di quelle che hanno talmente senso da non avere nemmeno bisogno di una conversazione. Una birretta da marciapiede di Camden Town per capirci, o da ponte di Harajuku. E va bene, non voglio fare la viziata, anche una da panchina in centro di Padova mi andrebbe più che bene.
Voglio un maledetto biglietto del treno, voglio ritornare a sentire. Voglio che arrivi l'estate e che ricomincino i guai.

Foto by Sandro Bernardinello [www.sandrobernardinellophotography.it]

lunedì 11 aprile 2011

Ring a ring a rosie

Appena l'ho vista, la prima cosa che ho pensato è stata "Inghilterra". E' inutile, la maggior parte dell'architettura te la ricorda, con le case di mattoni rossi e i camini rotondi, e i cancelli di ferro verniciati di nero. E poi ci sono gli odori. Ce n'è uno in particolare che è uguale, non so di cosa sia, so solo che mi fa venire in mente la moquette, i corridoi stretti, le scalette ripide e le case con i muri colorati.



Rispetto alle altre città europee, a Dublino la vita gira molto di più attorno ai pub. Ero lì da un giorno e mezzo neanche, che già mi stavo preparando perché "una tipa che ho conosciuto oggi mi ha invitata in un pub a vedere un suo amico che suona", situazione che a quanto pare capita spesso. Con una serata in un pub di Dublino ti fai una rete di conoscenze che neanche immagini, in soli due giorni la rubrica del mio telefono ha subito un notevole aumento di contatti. Prima del terzo giorno non avevo ancora conosciuto nessun irlandese, e questo la dice lunga su quanto la cara Dublin sia cosmopolita.

La frase tipica che mi ha detto ogni singolo dublinese prima di uscire la sera è stata "adesso ti porto nel posto dove secondo me fanno la Guinness più buona di tutta Dublino".



Una cosa che ho notato, rispetto ad esempio a Londra, è la scarsità di ristoranti italiani. Almeno, io non ne ho visti. Liam, il mio couchsurfer, mi ha detto che qualche decina di anni fa gli italiani che si trasferivano a Dublino provavano ad aprire dei ristoranti, ma senza troppo successo. Quindi hanno ripiegato sui fast food, e ora quasi tutti i chioschi notturni di patatine e panini, sì quelli dove vai per mangiare qualcosa quando sei secco, sono gestiti da italiani. "Cosa? Mi stai dicendo che gli italiani vendono junk food a Dublino?" "sì e sono anche i più buoni! Io se ne vedo uno gestito  da cinesi non mi fido, vado sempre da quelli italiani" "ma è terribile" "perché? Guadagnano molto bene" "E' ancora più terribile.." ora io non so se sia vero ma, beh, speriamo di no.
A volte noi italiani abbiamo la fama di quelli che non sanno bere, questo l'ho scoperto da poco, me l'ha detto Conor una sera. "Ci sono 9 italiani che entrano in un pub, sai che cosa fanno?" "cosa?" "they share a pint" "ah"
Beh. Come abitante della seconda valle in Trentino per tasso di alcolismo (maledetta val di Fassa!) non mi sento di prendermi la respondabilità per questo stereotipo. Allora, fuori i nomi, chi è stato? Italiani che non sapete bere, mi spieghate che ci andate a fare a Dublino? A finire come i vostri compatrioti che la sera invece di andare a bar vendono patatine, ecco cosa!

Dublino è piccola, molto piccola se si prende solo il centro. A piedi si arriva un po' ovunque. Ci sono un paio di strade principali, c'è il fiume Liffey che divide la parte fighetta da quella non fighetta, Temple Bar che è la zona piena di bar e turisti, Grafton street che è la zona piena di negozi e turisti, la zona del Trinity College e dintorni, O' Connell street e dintorni. Se percorrete una qualsiasi strada del centro e fate quei 200 metri in più, vi ritrovate in periferia. Io adoro la periferia. Mi fa paura, e la adoro.


Per indicare quanto casa tua è lontana dal centro si usano i numeri: "dove abiti?" "non molto lontano, a Dublin 4" "ah beato te, io sto a Dublin 18!"
Scommetto che una delle linee della metro di Shinjuku a Tokyo porta a Dublin qualcosa. E mi dispiace ma questa la puoi capire solo se sei stato a perderti nella stazione di Shinjuku.



Dove ci si dà appuntamento a Dublino? Allo Spire, ovviamente. Lo Spire sta in O' Connel street, che è una stradona bella larga nel northside con delle grandi zone pedonali, che arriva proprio perpendicolare al fiume. Le due corsie di marcia sono separate da una zona pedonale, e proprio lì in mezzo, all'altezza dell'incrocio con Talbot street, c'è una scultura metallica a forma di ago gigante alta 121 metri che sorge dal terreno. Lo Spire, per l'appunto. A dire la verità è un po' scomodo per incontrarsi con qualcuno, perché avendo una struttura cilindrica non c'è un davanti o un dietro, quindi per essere sicuri che il vostro appuntamento non vi stia aspettando dall'altra parte dovrete mettervi a girarci intorno. Se poi state girando tutti e due potrebbe anche succedere che non vi incontriate per svariati minuti. O magari state tutti e due fermi sul posto aspettando che sia l'altro a girare e passate mezz'ora ad aspettarvi a tre metri di distanza. Secondo me la gente si mette d'accordo prima: "dove ci vediamo stasera?" "va bene allo Spire?" "ok, io sto fermo e tu giri?" "va bene, a dopo"




E allora dai, stasera portami nel tuo pub preferito che ne ho bisogno. Imparerò ancora un po' di accento irlandese così la prossima volta non mi scambieranno più per una polacca, e potrò confondere gli americani quando mi chiedono l'ora. "Half two?"
Nei pub di Dublino puoi vedere scene uniche, come i vecchietti seduti attorno ad un tavolo che invece di giocare a carte o parlare di politica si mettono a suonare musica irlandese e i giovani li alscoltano mentre aspettano il settling time della loro Guinness. E intanto al tuo tavolo multietnico un argentino sta interrogando un californiano sugli stati dell'America latina.


lunedì 4 aprile 2011

Nice to meet you, mr. Cash

Una cosa fondamentale per la mia vita è quella di avere una colonna sonora.
Dai 14 anni in su ero perennemente attaccata al lettore CD, la mia barriera protettiva contro tutto e tutti.
A volte alzavo il volume sempre di più, finché non copriva completamente il motore delle macchine, il canto degli uccelli, la voce delle persone e qualsiasi altro rumore. Volevo che sembrasse che la musica uscisse da loro, dagli alberi, dalla strada, dalle case, dalle montagne. A volte avevo bisogno di sentirmi in sincronia con il mondo, di pensare che questo posto mi fosse complice e non nemico.
A volte avevo paura di fermare la musica.



sabato 2 aprile 2011

Un altro giorno sotto il cielo di Blackpool

I fucking seagulls mi avevano svegliata ancora una volta.
Ho aperto gli occhi nella luce delle 9 di mattina. Il mio compagno di letto si era fregato di nuovo tutte le coperte, ma non importava, in quei giorni c'era un caldo inusuale per quella città, o almeno così sarebbe stato fino al giorno della nostra partenza.
Mi sono girata dall'altra parte e vicino a me c'era il miracolo della vicinanza. Ogni mattina me ne stavo in silenzio a guardarlo dormire nell'altro letto, la bocca leggermente aperta, le spalle nude, i segni della coperta sulla pelle abbronzata. Era a poco più di un metro da me, avrei potuto allungare la mano e sfiorargli una guancia, oppure svegliarlo e cominciare da subito ad influenzare la sua giornata con la mia presenza. Qualche giorno dopo ci saremmo ritrovati di nuovo a migliaia di chilometri di distanza, e le uniche cose rimaste da condividere sarebbero stati i ricordi e il cielo. Ma era un concetto troppo fuori portata per rendermene conto mentre ero sdraiata su quel letto e potevo perfino sentire il suo respiro.

Te ne accorgi solo dopo, quando quella persona diventa una foto con accanto un'icona verde sulla chat di facebook, quando senti la sua risata al telefono e la mente ti si riempie di immagini dei suoi occhi, quando ti accorgi che la sua vita non è più influenzata dalla tua presenza. E allora ti torna in mente quel momento in cui quella persona dormiva accanto a te, o beveva una birra al tuo stesso tavolo, o rideva alle tue battute, e butteresti via tutti i computer e le webcam e i telefoni e le chat del mondo, solo per un altro abbraccio.

mercoledì 30 marzo 2011

La pazzia del conte

Dai che ti racconto una storia.
C'era una volta un piccolo paesino nascosto tra i monti della Brianza. Era un grazioso paesino con pochi abitanti, gente che lavorava la terra, raccoglieva castagne e viveva semplicemente. Gli abitanti del paesino però non possedevano le case dove abitavano, tutto il territorio era proprietà di due famiglie, la famiglia Verga e la famiglia Anghileri.


Risuona un beep nel soggiorno della casa sconosciuta. Verona, 05.41.
Waah, che sonno. Apro gli occhi e a tentoni cerco il cellulare. L'orologio conferma che ho dormito tre ore. La sedia a dondolo vicino al divano letto si muove un po', come se un fantasma ci si fosse seduto sopra...gatto, sei tu? La cosa più difficile è staccare la testa dall'amorevole abbraccio del cuscino più comodo su cui abbia mai dormito, ma non voglio farmi trovare ancora in coma, il mio orgoglio di animale notturno ne risentirebbe. Sento dei movimenti, e intravedo il perfetto sconosciuto che entra in cucina con camminata a strascico di pantofole. Mi unisco a lui in una colazione forzata e una breve conversazione tra le fessure degli occhi. Mi dà l'improbabile buongiorno, mi scalda il latte, mi spalma la marmellata sul pane.
Per quanto bello sia crogiolarmi tra le sue coccole, il motivo per cui ci siamo alzati a quell'ora è un altro. Sfida di lavaggio denti in bagno, cerimonia della vestizione, lui si munisce della dovuta attrezzatura fotografica, io della mia fotocamera bridge, e in un momento siamo in pasto all'aria mattutina, pronti per andare a prelevare i nostri assonnati compagni. Con sonno.


Un giorno al paesino arrivò un ricco signore, che possedeva un'impresa edile con la quale aveva costruito strade, autostrade e aeroporti in tutta Italia. Occhiali da sole, cappello bianco, giacca e cravatta, si presentò e disse: "Io sono il grande ufficiale Mario Bagno, conte di valle dell'Olmo. Comprerò questo paesino e lo renderò un posto migliore".


Merda, perché dev'essere nuvoloso? Possibile che ogni volta che esco a fare foto c'è il cielo bianco? Vabbè, pazienza...arriviamo al punto d'incontro con i nostri due compagni, che collassano sul sedile posteriore hand in hand, per metà chiacchierando e per metà dormendo mentre io scelgo un cd per il viaggio.


Correva l'anno 1962 quando, per 22.500.000 lire, il conte comprò dalle due famiglie il territorio su cui si ergeva il paesino, e per cominciare costruì una bella strada che lo collegava con il paese sottostante, cosicché fosse facilmente raggiungibile da Milano. All'inizio gli abitanti erano contenti, perché credevano che i turisti sarebbero arrivati e avrebbero portato soldi e comprato i prodotti della loro terra, ma il conte aveva in testa un progetto molto più grande e folle: avrebbe trasformato il paesino in un paese dei balocchi, e per fare questo non esitò a cacciare tutti gli abitanti dalle loro case e a demolirle, per fare posto a quella che da alcuni fu chiamata "la Las Vegas della Brianza".
Quel paesino si chiamava Consonno.


Arriviamo in un piccolo paesino, ma non è lì. Da quel paesino prendiamo una stradina in salita incastonata tra le case, e man mano che saliamo le case cominciano a diradarsi e scomparire. Iniziamo ad imboccare uno, due, tre tornanti, finché parcheggiamo a bordo strada davanti ad una sbarra che impedisce alle macchine di andare oltre. Ma non è neanche lì. Con lamenti vari cominciamo ad incamminarci a piedi, zaini e borse in spalla, osservati con indifferenza da un pubblico di castagni secchi. Dopo un tempo indefinito la strada si fa piana e lo scheletro graffitato di un edificio ci si para davanti, come una carcassa piena di tatuaggi. Andiamo oltre. Mentre continuiamo per una stradina sterrata, la vallata nebbiosa come panorama e i (troppo vicini) spari dei cacciatori come colonna sonora, degli enormi cartelli ci avvertono che Consonno è il paese più piccolo ma più bello del mondo, e che a Consonno è sempre festa.


Le ruspe lavoravano instancabilmente, il conte faceva costruire e demolire di nuovo in base alle sue idee del momento. E così apparvero un minareto, una sfinge, delle colonne greche, una pagoda cinese, un albergo, una galleria di negozi, cannoni, sale da gioco e da ballo e molto altro. Il conte fece persino abbassare un monte adiacente con la dinamite, per migliorare il panorama. Vennero organizzate feste, serate danzanti ed eventi mondani esclusivi, le luci erano sempre accese a Consonno città dei balocchi.


E' da lì che scorgiamo in lontananza la torre del minareto, ancora colorata dopo tutti questi anni per via delle piastrelle che la ricoprono, o almeno quelle che non sono state rubate. E' sempre sotto un cielo bianco e anonimo che facciamo il nostro ingresso ufficiale nella città dei balocchi.


Gli improbabili lavori dell'impresa del conte però stavano danneggiando il terreno, e presto causarono delle frane sulla strada sottostante. Il lavoro del conte fu denunciato e i giornali cominciarono a parlare dello scempio del piccolo paesino e della follia dei suoi progetti, ma Mario Bagno non si fermò di fronte a nulla e l'ormai irriconoscibile Consonno visse un periodo di grande popolarità.


Davanti a noi cammina un uomo, sacco in spalla e piccolo gruppo di pecore al seguito. Senza degnare di uno sguardo né noi né il minareto oltrepassa noncurante la rete rossa degli inesistenti lavori in corso e si allontana. Sembra essere l'unica cosa concreta rimasta dopo la sorte che è toccata a questo posto. Noi non facciamo parte di questa storia, siamo solo dei fantasmi, noi.
E quando dico "noi" non intendo noi quattro, ma "noi quattro più le altre 10 persone che già si aggirano qui attorno con in mano costose reflex e cavalletti, proprio come noi. Ah. Beh. Piuttosto affollato per essere un luogo abbandonato, in fin dei conti.




Come tutte le novità, presto Consonno perse il suo fascino, e iniziò il periodo del suo declino. I lavori progettati dal conte non furono mai finiti, e il paesino rimase disabitato e abbandonato, vittima del tempo, delle intemperie e dei vandali. La torre del minareto fa ancora capolino fra le montagne della Brianza, un improbabile campanile ricoperto di graffiti che ricorda l'esistenza di quel piccolo paesino, diventato paese fantasma.


In quel momento mi viene uno strano pensiero, il pensiero che in realtà non ci sia poi molto di diverso, parco dei divertimenti era e parco dei divertimenti è rimasto, sono semplicemente cambiati i "clienti". Da turisti spendaccioni a urban explorers e graffitari.




Fine della storia e della giornata: a Consonno rimane una chiesetta, sopravvissuta miracolosamente alla pazzia del conte, e qualche contadino brontolone che si lamenta per la presenza dei fotografi. A me rimangono delle fotografie, ore di sonno arretrate e l'abbraccio più bello mai ricevuto davanti ad un treno in partenza.




Altre foto qui.

martedì 11 gennaio 2011

02.01.2011

Le inglesi avevano effettivamente dei gusti di merda.

In compenso ho fatto amicizia col cameriere biondino, che si chiama Sean e viene dalla California. Ci ha già provato con me ma ho pensato "eh no, io con la California ho chiuso, una volta mi fregate poi basta".
Inoltre, un plauso per me che ho parlato per quasi un'ora in francese con una coppia di turisti della Bretagne. Il risultato? Mi hanno dato il loro biglietto da visita e se mai andrò a trovarli avrò a disposizione nientemeno che un bell'appartamento sul mare tutto per me. Merci beaucoup!
Quando Sean ha staccato siamo andati in un altro pub con due tipi di Roma (uccidetemiiiiii) dove c'erano tre ragazzi che si erano messi a suonare musica irlandese in jam session. Il pub era troppo figo, perché era all'interno di un ostello e se chiedevi al proprietario a che ora chiudeva lui ti rispondeva "tu a che ora vuoi andare a casa?"


Inutile dire che questa mattina la colazione è andata a farsi fottere e che non sono uscita dall'ostello prima di mezzogiorno. Le inglesi che sono partite stamattina mi hanno lasciato in eredità due bottiglie di vino vuote, una bomboletta di lacca spray piena, una bottiglia d'acqua e vari rasoi usati, che continuo a trovare in giro per la camera.
Alle 2 meno 10 in punto o circa mi trovo di fronte alla statua di Oscar Wilde in Merrion Square, con un pezzo di cartone in mano e in attesa di un gruppo di perfetti sconosciuti. E' tempo di FREE HUGS meeting.
Il team è composto da me, un'altra italiana, un'americana di nome Serendipiti, 3 spagnoli e un greco/svedese che vive a Dublino.
Faceva un gran freddo, e avrò abbracciato e scaldato almeno un centinaio di sconosciuti, su e giù per Grafton street e per le strade di Temple bar. Niente male per un primo giorno, eh, Dublino? Credo proprio che tu mi piaccia già.






La ragazza italiana mi ha invitato al Mercantile pub in Dame street stasera, dove suonano dei suoi amici, e ora mi sto bevendo il cider-aperitivo all'O'Sheas con Sean mentre aspetto che arrivi l'ora. Dopo gli abbracci siamo rimasti io, Serendipiti e Daniel, il greco svedese. Siamo andati in uno shisha bar, dove ti siedi per terra, ordini tè e narghilè e ti godi la vita. Abbiamo parlato di una miriade di cose: il bello delle persone che hai appena conosciuto è che non finisci mai gli argomenti di cui parlare.

E in tutto questo, anche oggi mi sono dimenticata di guardare il cielo d'Irlanda.



martedì 4 gennaio 2011

01.01.2011

Incredibile quanto sia bello fare una doccia appena arrivati in qualsiasi posto.

La prima boccata d'Irlanda e' stata magica, del tipo che sono uscita dall'aereo e ho pensato: "OH". La puoi descrivere con una sola parola: wet.
Nell'aeroporto c'era un odore dolce e frizzante, e fuori una piooggerellina che ricordava piu' i nebulizzatori di Gardaland che una pioggia vera. Nell'autobus c'era quell'odore, quell'odore che io ADORO. Di sedili puliti, di Inghilterra, di autobus nuovo.
L'ostello dove sono e' in una strada piena di ostelli, ognuno con un'entrata figa. E' un ostello come si deve, con la receptiontutta addobbata di poster di ogni tipo, mappe gratis della citta ovunque. I divanetti un po' consumati dove la gente chatta su internet e tutte le porticine e i corridoietti infiniti che ti fanno perdere. Ah, e moquette ovunque, naturalmente.
Le mie compagne di stanza sono tre inglesi, all'inizio non mi hanno cagata piu' di tanto ma poi abbiamo parlato un po'. Domani mattina vanno via, sono venute qui a fare il capodanno e infatti appena entrata ho subito notato le due bottiglie di vino vuote per terra. Certo che sono state qui tre giorni ma sembra che vivano qui da sempre...in bagno e' pieno dei loro saponi/shampi/balsami sul lavandino e nella doccia, rasoi ovunque, orecchini, asciugamani appesi. Io ho dovuto appoggiare tutta la mia roba sul water, pero' ho aggiunto il mio shampoo alla loro collezione sperando che non me lo portino via. Hanno giocato a carte tutto il tempo che sono stata li'.
Ora esco, vado a cercare qualcosa da mangiare. Una delle ragazze mi ha consigliato un bar in fondo alla strada dove secondo lei il cibo e' "really good". Credo che provero' a farci un salto, per quanto insolito, sconsigliabile e rischioso possa essere farsi consigliare un buon ristorante da un inglese.

[...]

Ora sto ascoltando musica irlandese nel pub di cui sopra, con tanto di luci soffuse al punto gliusto, tutto di legno scuro e con i divanetti con i cuscini di pelle rossa. La lager irlandese che mi ha consigliato il cameriere biondino con i capelli lunghi e' buona (non sono ancora pronta psicologicamente per la mia prima Guinness).

p.s. nella mia camera non c'e' il riscaldamento
p.p.s. a quanto pare qui hanno deciso all'unanimita' che io ho un accento dell'est Europa.